a cura di Silvia Brena, giornalista, co- fondatrice di Vox- Osservatorio Italiano sui Diritti
C’è, sulla piattaforma TED, una bella intervista a Gloria Steinem, una delle voci più importanti della scena femminista americana. Parla di “contagion of freedom”.
Potrebbe sembrare un ossimoro. Ma non lo è. Non c’è contraddizione, neanche in termini, tra contagio e libertà, che si può propagare a onde benefiche sulla scorta dell’esempio e delle buone pratiche.
Non è quello che sta succedendo nel panorama italiano dei social, Twitter innanzitutto.
Qui, l’unico contagio in corso è quello maligno delle parole che negano la libertà. Libertà di avere una propria vita, di avere una professione a cui ci si dedica con impegno, di avere voglia di uscire nel mondo vestite come meglio si crede, di vivere la propria vita secondo il proprio talento e i propri sogni.
È il panorama desolante che emerge ancora una volta dalla Mappa dell’Intolleranza, quest’anno alla sua quinta edizione.
Le donne, i dati lo registrano, restano la categoria più odiata dagli odiatori seriali. È, purtroppo, una storia ricorrente negli anni, dal 2015, quando abbiamo iniziato la nostra mappatura.
Ma quest’anno il dato è troppo. Troppo forte. Troppo cattivo. Troppo difficile da guardare. Perché parla di uno spostamento rabbioso di odio che non mette più solo al centro del dileggio e dell’insulto il corpo delle donne.
Quest’anno, al centro c’è la vita professionale delle stesse. Così, nel mirino finiscono giornaliste e avvocate, insegnanti e mediche, infermiere e impiegate. Insultate perché “inette, incapaci, insulse”.
Se ne tornino a casa, sembra il refrain tristo e avvizzito che risuona nelle teste di uomini (ma anche donne) che se la prendono con chi pratica la libertà.
Sì, perché il lavoro per le donne è sinonimo di libertà. Di scelta, di realizzazione delle proprie aspirazioni, di gestione delle risorse economiche. In una parola, rappresenta la via maestra per l’autonomia.
Solo che in Italia oggi, ultimi dati Istat disponibili, le donne che lavorano sono il 56,2% del totale. Lontanissimo da quell’81,2% della Svezia. Siamo gli ultimi in Europa per tasso di occupazione femminile. E non è un bel dato da ricordare. Perché il lavoro è ciò che emancipa anche dalla violenza.
E infatti. E purtroppo. In Italia durante il lockdown della scorsa primavera sono triplicati i femminicidi, uno ogni due giorni in media. E ogni volta che la Mappa dell’Intolleranza ha registrato un aumento di tweet misogini, lì si addensavano anche le violenze domestiche.
È lo sciame digitale che si agita e apre all’azione nefanda. Retto pensiero, retta parola, retta azione, diceva il Buddha. Come dire, se pensiamo male e prendiamo a male parole chi ci sta vicino, poi finiamo per legittimare anche l’azione violenta, presi come siamo da un abito mentale che diventa la nostra cifra (oscena) di racconto.
C’è stato un corto circuito perverso tra bisogno di svolgere il proprio lavoro da casa e aumento esponenziale delle violenze sia verbali che fisiche. Quasi che non avere a disposizione la propria compagna a “fare le faccende della casa” abbia fatto uscire di senno quegli uomini che della libertà delle donne non riescono a farsi una ragione.
Di questo aspetto dello smart working dovremo riflettere e dibattere a lungo. Abbiamo molto da fare.
Perché se si vuole cambiare il portato culturale di una società, decine di studi lo dimostrano, si ha bisogno delle donne, si deve partire dalle donne. Appunto.
Ma c’è un altro dato che la Mappa dell’Intolleranza 5.0 mette in rilievo.
Preoccupa e alleggerisce al tempo stesso.
In assoluto, i tweet negativi sono in netta diminuzione dall’anno passato. Sono il 43,7% contro il 71% delle precedenti rilevazioni. Siamo diventati più buoni?
Guardando da vicino i dati, si capisce che siamo in presenza di una mutazione in corso. Lo si capisce se si analizzano i picchi di odio, i momenti in cui gli hater si accaniscono.
Contro gli ebrei il 25 aprile e il giorno del compleanno di Liliana Segre. Contro le donne nel corso dei femminicidi. Contro i musulmani al ritorno di Silvia Romano e per le esternazioni di qualche ct sportivo che se la prende con i migranti.
Sono picchi decisi, sembrano montagne che si impennano con le loro cime aguzze e taglienti. Dunque, siamo di fronte, spiegano i sociologi, ad accanimenti che parrebbero evidenziare un uso diverso dei social. Un uso quasi più “professionale”, dove circoli e gruppi di hater concentrano la produzione e la diffusione di hate speech.
Oggi dunque, mentre la pandemia ci ha costretto a rivedere le nostre priorità affettive e a ricucire i fili interrotti di una socialità che per gli esseri umani è urgenza vitale, l’odio social non si ferma, ma si radicalizza.
E si concentra sulle categorie storicamente nel mirino quando la paura invade e, nell’incapacità di elaborarla, va scaricata contro “vittime” designate (gli ebrei). E contro le categorie più esposte ai cambiamenti e agli adattamenti necessari per superare le difficoltà cui la pandemia ci ha costretto (le donne).
Ma tutto ciò preoccupa. Perché ormai sappiamo, lo dimostrano gli studi che nel mondo si occupano di prevenzione di hate crime, che odiare in modo più radicato è il fattore di attivazione di forme diverse e più organizzate di estremismo.
Dunque, che cosa sta succedendo nelle praterie dei social?
E come possiamo arginare derive pericolose di fenomeni che non sempre siamo in grado di controllare e prevenire?
Dall’inizio. Sta succedendo che gli algoritmi dei social han fatto sì che le nostre paure, frustrazioni, rabbie, nutrite dal carburante incendiario di stereotipi e pregiudizi, diventassero benzina ad alto tasso di infiammabilità.
È il fenomeno delle echo chambers. Decine di studi, compresa la nostra Mappa, hanno dimostrato e stanno dimostrando che l’introduzione di un algoritmo capace di segmentare le communities sui social per ottenere profilazioni di dati sempre più efficaci e sofisticate, ha fatto sì che persone il cui corredo emotivo, psichico, culturale equivalesse, si ritrovassero a scambiarsi i loro convincimenti in una sorta di spazio virtuale che gli ha fatto da eco.
Uno spazio virtuale, che può essere occupato, usato e manipolato da chi ha interesse a diffondere panico e rabbia. Gli psicologi parlano di bias dell’ingroup, di quegli elementi cioè che rafforzano i nostri pregiudizi.
Vale a dire: se sono un terrapiattista e mi ritrovo in mezzo a una camera dell’eco con altri terrapiattisti, la mia visione del mondo non può che uscirne rafforzata. E io la rafforzerò, per poter far parte di quel gruppo.
Così viaggiano i pregiudizi contro le donne che non devono lavorare e si devono sottomettere. E contro gli ebrei untori da secoli. E contro i musulmani, che sono tutti terroristi.
Così viaggia la paura.
Ci sono molti bei documentari che lo raccontano. Uno su tutti, The social Dilemma su Netflix, il racconto in presa diretta degli sviluppatori di quegli algoritmi che oggi hanno capito che cosa hanno combinato.
E dunque, che fare?
Innanzitutto, normare. Adesso basta. È ora di dirlo con voce chiara e forte.
In Parlamento giacciono diversi progetti di legge volti a contrastare la diffusione dell’odio sui social sul modello tedesco e francese. Bisogna che la discussione vada avanti. Bisogna che l’odio sui social venga normato.
E poi. C’è un termine inglese che è balzato di recente sul podio delle parole belle: to heal. Significa guarire. Quando Joe Biden ha vinto le elezioni contro il suo predecessore (odiatore seriale) Donald Trump, è stato chiamato dalla stampa americana The Healer. Non per le sue doti magiche di curandero. Ma per la sua capacità di ricucire gli strappi. Di sanare le ferite provocate da divisioni e fratture.
Contro le parole dell’odio, affidiamoci al potere curativo delle parole che abbracciano, che leniscono, che uniscono.