Misoginia, antisemitismo e odio per lo straniero nella nuova Mappa dell’Intolleranza
di Silvia Brena, VoxDiritti
Sappiamo molto, oggi, dell’odio online.
Lo sappiamo da molto tempo, noi della Rete contro l’Odio. E lo sappiamo noi di VoxDiritti, che abbiamo costruito la Mappa dell’Intolleranza: da otto anni, da che abbiamo iniziato la nostra rilevazione, tra i primi in Europa a mappare lo hate speech online.
Conosciamo la pervasività dell’odio online. Ne abbiamo analizzato gli algoritmi, che favoriscono la creazione delle ormai note echo chambers, quelle camere di scompensazione dove odiatori arrabbiati, fanatici oltranzisti e ingenui, stolti fruitori in cerca del loro quarto d’ora di notorietà, rafforzano e diffondono le loro credenze e i loro pregiudizi.
Sappiamo, dalle parole di Shoshana Zuboff, docente alla Business School di Harvard, che il successo di Facebook deriva “da operazioni architettate da dietro uno specchio unidirezionale per tenerci nell’ignoranza e avvolti in una nebbia di diversivi, eufemismi, menzogne”. Parla di Facebook, ma il panorama degli altri social non differisce di molto.
Eppure.
Eppure, l’odio via social non scema. Come dimostrano i dati raccolti dalla Mappa dell’Intolleranza 8, che fotografa un fenomeno ormai in via di definitiva radicalizzazione.
Diverse, le linee di ricerca che quest’anno si sono volute approfondire, anche con l’aiuto della AI: una su tutte, l’analisi dell’incidenza di stereotipi negativi sulla formazione e sulla diffusione di hate speech. Analisi essenziale, per cercare di interpretare non solo il fenomeno dello hate speech online, sempre più invasivo e preoccupante, ma anche gli assetti culturali profondi che presiedono al discorso d’odio stesso. Se infatti, come ormai la letteratura ha evidenziato e la nostra ricerca confermato negli anni, il discorso d’odio è sempre più spesso governato da account falsi in grado di scatenare le cosiddette shitstorm, ciò che importa studiare e rilevare è soprattutto il potenziale di viralizzazione dei discorsi discriminatori che, come la Piramide dell’Odio ci ha insegnato, si basa proprio sugli stereotipi.
E dunque, che cosa abbiamo scoperto con la rilevazione di quest’anno?
Molto, a proposito di ciò che agita gli strati profondi della nostra società. Lo sappiamo, la paura governa l’odio, la frustrazione è la benzina che lo accende. Così il panorama muta e mentre le donne restano sul podio della categoria più odiata, come avviene sin dall’inizio della nostra rilevazione, quest’anno a scatenare intolleranza e discriminazioni è il rigetto dello straniero percepito come diverso a tutti gli effetti. Ebrei, musulmani, stranieri.
È un passaggio evidente, che riflette il disagio sociale diffuso e che cambia il percepito delle persone (nella rilevazione del 2022 il focus dell’odio riguardava i diritti della persona, con una dominanza di odio misogino, omotransfobico, concentrato sull’abilismo).
Da sempre le maggioranze, silenziose o rumorose, hanno avuto bisogno di confermare se stesse attraverso un capro espiatorio. Lo scelgono tra le cose che non capiscono e inconsciamente temono e considerano “deboli” o pericolose perché portatrici di visioni, bisogni, credenze diverse, percepite come minacciose.
Dalle ricerche sappiamo che alcune caratteristiche di personalità (sessismo, chiusura cognitiva, rigida adesione a ruoli di genere tradizionali) possono avere peso, ma non esauriscono la variabilità dei cosiddetti haters. Perché è l’incrocio perverso tra ansie e paure del futuro, motivazioni politiche e sociali che mirano a creare caos, e la cosiddetta variabile social ad aver prodotto il cortocircuito che lo hate speech rappresenta.
Così le donne sono le più colpite. Balza agli occhi, con la rilevazione di quest’anno, il tema della intersezionalità, fenomeno già studiato dalla giurista americana Kimberlè Crenshaw, che descrive la sovrapposizione di diverse identità sociali di una persona e il rischio di un’esposizione esponenziale alle discriminazioni. Donna e straniera? Sarai di più nel mirino. Donna ed ebrea? Non ne parliamo.
E a proposito di ebrei e di antisemitismo, il dato è sconcertante. Dal 6,57% al 27%, l’antisemitismo effetto e coda lunga del post 7 ottobre e del conflitto israelo- palestinese, rappresenta un segnale inquietante. Gli stereotipi negativi contro gli ebrei superano gli stessi discorsi d’odio e, sommati allo hate speech “puro” (insulti, offese, etc), rappresentano l’80, 93% del totale dei contenuti postati sugli ebrei. Tradotto, si va sui social per sparare ad alzo zero contro gli ebrei, trasformati da “rabbini, esosi e tirchi” in aggressori, invasori, genocidi. Quello che la Mappa dell’Intolleranza 8 ha rilevato, infatti, è un vero e proprio spostamento semantico e la riformulazione dello stereotipo: la categoria oggi più odiata non è l’ebreo in quanto tale, ma in quanto sionista. Viene dunque spontanea una riflessione: quanto di questo odio è da attribuire alla percezione di un popolo che non viene più considerato, come storicamente è stato, una vittima? E ancora, riflettono gli psicologi sociali: mostrando come gli ebrei siano la categoria per cui il linguaggio d’odio è più strettamente collegato allo stereotipo, i dati ci fanno ipotizzare che l’antisemitismo sia oggi presente nella società italiana in modo diffuso.
Dunque, a proposito di stereotipi. Capire come originano e quanto incidano sulla formazione e viralizzazione del discorso d’odio ci aiuta a capire fino a che punto credenze e assetti culturali categorizzanti incrostino le nostre coscienze e le nostre società. Missione importante, ha a che fare con un’apertura mentale che favorirebbe l’integrazione e una maggiore ricchezza del nostro Paese. Oltreché un livello più alto di felicità personale.
Perché odiare fa male.
E allora guardiamoli da vicino, questi stereotipi. Degli ebrei, abbiamo già detto. Delle donne, molte sono le riflessioni da fare.
La Mappa mostra infatti come, a differenza delle scorse edizioni, sembrino meno presenti gli stereotipi classici sulla subordinazione della donna nella società e nel mondo del lavoro e, invece, persistano commenti su stereotipi legati al look o al fisico delle donne. Che cosa indicano questi dati? E cosa suggeriscono? Una cosa su tutte. La presenza di una certa cultura patriarcale sull’inferiorità della donna nella società sembra affievolirsi almeno nel contesto dei social. Ma l’assenza di stereotipo classico non significa assenza di misoginia. Detto altrimenti, l’odio contro le donne sarebbe così profondo e sottile, da non aver bisogno della sovrastruttura culturale rappresentata dal pensiero stereotipato tradizionale. Dove si esercita allora la misoginia? In quali forme e con quali costrutti? L’odio contro le donne oggi pare aver sempre più a che fare con la marginalizzazione, la discriminazione e l’esercizio del potere. Se così, va allora ridefinito il perimetro del concetto stesso di patriarcato, espressione di una forma di potere che limita la libertà e la costruzione identitaria altrui: una connotazione, legata certamente a una fragilità maschile contemporanea, figlia di un disallineamento dei ruoli e di un disagio sociale crescente. Solo che l’odio misogino “distillato” si fa più feroce e porta, inevitabilmente, anche allo scoppio di violenza contro le donne, come la cronaca purtroppo ci mostra e l’analisi dei picchi di odio conferma.
Qualche esempio, giova sempre toccare con mano. «Mi trovo in una località di mare. Osservando come escono “vestite” le ragazze la sera, mi chiedo: come fanno le mignotte al giorno d’oggi a farsi riconoscere?». Oppure: «Le mignotte sono più sincere, ti chiedono subito i soldi». Inutili, i commenti.
Altro campanello di allarme.
Il 71,74% di contenuti correlati agli “stranieri” e in particolar modo ai migranti, ha carattere e sentiment negativo. Di questi, una percentuale del 17,14% è rappresentata dagli stereotipi negativi. Un dato che non sorprende, visto il racconto che gli sbarchi si portano appresso, ma che viene evidenziato da una semantica tuttora ancorata a stereotipi frusti, tutti legati alla “negritudine”.
Una visione del “diverso”, che non solo “ruba il lavoro”, come certa pubblicistica vorrebbe continuare a far intendere, ma porta disgrazie e malattie.
Anche l’islamofobia si nutre di pesanti stereotipi negativi. E, dato ancora più inquietante, è foraggiata dall’incontro con le culture percepite come aliene, con cui veniamo a contatto in qualità di genitori nelle scuole. Altresì detto, intollerabili quelle studentesse con il velo. E pazienza se proprio le nostre classi dovrebbero essere luoghi franchi di scambio e di confronto, come la Costituzione auspica e prescrive.
E ancora. E peggio.
Il 79,86% dei post sui temi legati all’abilismo è contenuto di odio e venato di stereotipi correlati con lo hate speech. Un dato inquietante, che conferma le analisi della scorsa rilevazione, quando si fece evidente che eravamo, e siamo tuttora, in presenza di una vera distorsione lessicale: l’uso del linguaggio offensivo contro le persone con disabilità si è andato via via allargando, ampliando sia il suo utilizzo originario sia il suo significato, più ampio e meno specifico. Peccato che l’insofferenza e l’intolleranza non sia solo affare di costruzione di frasi, ma si trasformi poi nelle puntuali shitstorm che corredano e circondano l’esplodere di atti di bullismo contro le persone con disabilità, atti peraltro in crescita, soprattutto tra i più giovani.
Dunque, adesso sappiamo.
Come un grido di pasoliniana memoria, noi sappiamo che la responsabilità, molta, è dei social network e dell’uso manipolatorio che è stato fatto degli algoritmi che li governano, pensati per scatenare emozioni forti. Sappiamo che quegli stessi algoritmi favoriscono la diffusione di contenuti fortemente polarizzati (negativi o positivi). E che sono i contenuti fortemente polarizzati al negativo a essere premiati dagli algoritmi, perché scatenano una reazione più immeditata e producono quindi più like. In un bel libro inchiesta delle giornaliste americane Frenkel e Kang (Facebook, L’inchiesta finale) si dà conto di un esperimento segreto condotto da Facebook. Nel corso di una settimana nel 2012 i ricercatori alterarono ciò che circa 700mila utenti avrebbero visto accedendo alla piattaforma.
Ad alcuni venivano mostrati contenuti esageratamente felici, ad altri tremendamente tristi. I risultati? Vedere post negativi spingeva gli utenti a esprimere atteggiamenti negativi nei loro stessi post. Mentre se gli utenti venivano a contatto con contenuti positivi, era probabile che a loro volta diffondessero post di segno positivo. La conclusione dei data scientist di Facebook? “Gli stati emotivi si possono trasferire agli altri per contagio, portando le persone a provare le stesse emozioni senza che se ne rendano conto”.
Si chiama, appunto, manipolazione.
E adesso, a più di dieci anni di distanza, dopo la cura del magnifico duo Musk- Trump e dopo che l’intera compagine dei moghul della tecnologia vi si è accodata, va molto peggio.
La Mappa dell’Intolleranza 8 ha acceso anche un faro sul perché l’odio sia così pervasivo. E dove affondi le sue radici. È una piccola luce iniziale, la torcia andrà alimentata con altre ricerche e altre riflessioni.
Come ci spiega la psicologia sociale, esternare l’odio è un bisogno primitivo, non elaborato, riversato su gruppi che culturalmente rappresentano ciò che è considerato debole o inferiore. Si trattadi persone dal funzionamento psichico basato su dinamiche binarie: dentro-fuori, buono-cattivo, bianco-nero, uomo-donna, etero-omo. Persone, incapaci di fronteggiarsi con un panorama che muta e che per questo fa paura. E l’analisi condotta dalla Mappa evidenzia come la diffusione dello stereotipo e la sua incidenza sullo hate speech dimostrino che siamo di fronte a una ipersemplificazione, alla tendenza a considerare i gruppi esterni come indifferenziati e composti da persone tutte uguali, a una iper-categorizzazione che dà sicurezza in tempi incerti.
Vi risuonano i discorsi di Goebbels?
Dunque, dobbiamo studiare. Le scienze del comportamento e la psicologia indicano due fattori alla base di pregiudizi e discriminazioni: la scarsa conoscenza dell’altro e la necessità di sentirsi parte di un gruppo come fonte di identità e di sicurezza. Ciò avviene specialmente se le situazioni di vita sono incerte e non c’è senso del futuro. I dati raccolti dalla Mappa sembrano confermare questi due processi. La stragrande maggioranza dei tweet mostra un odio generico verso i bersagli e una loro scarsa conoscenza. I tweet sono poi nella quasi totalità risposte ad altri tweet e condivisioni, mostrando così la necessità, per gli autori, di appartenere a gruppi di persone con valori condivisi e che si autosostengono.
E dunque, e come?
Conoscersi, conoscere gli oggetti d’odio: a volte, è la terapia migliore perché, a condizione che l’odio non sia costruito ad hoc da gruppi estremisti votati alla creazione del caos, per il singolo l’accostamento con la sua “vittima” spesso ne depotenzia il furore.
E ancora. Favorire esperienze di scambio positivo. Le scuole, prima di tutto. Terreno elettivo di formazione ed educazione alla civiltà.
E avanti.
Gli haters vanno fermati e denunciati. Bene fa la senatrice Segre e chi, come lei, trascina i suoi persecutori davanti al giudice.
E poi. Lo diciamo da molto.
Per combattere lo hate speech, dobbiamo costruire storie belle. È ciò che si chiama narrazione alternativa. Lavorare soprattutto con i ragazzi costruendo racconti di sé e del mondo, basati su empatia e positività. Non è buonismo, è una pulsione vitale. Serve, anche, a preservare la nostra specie dall’autodistruzione.
E poi. E ancora.
Riscopriamo il valore della cura. E ripetiamocela, questa piccola, potente parola, quasi fosse un mantra. Cura- cura- cura- cura. Parola ponte, si porta appresso rispetto. E abbraccio. E ascolto. E creatività. E vita. Spiega la filosofa Luigina Mortari: “Senza cura la vita non può fiorire. È essenziale, perché protegge la vita e coltiva la possibilità di esistere”.
Contro le parole dell’odio, affidiamoci al potere curativo delle parole che abbracciano, che leniscono, che uniscono.