a cura di Silvia Brena, VoxDiritti, Coordinamento Rete
Aurora Tila aveva 13 anni e un volto di bimba. Il suo carnefice, di anni ne ha 15. Colpisce al cuore uno degli ultimi femminicidi di un ottobre insanguinato, quello di una ragazzina di Piacenza, spinta giù da un terrazzo con un volo di 12 metri, perché il suo fidanzatino non voleva lasciarla andare. Così l’ha gettata via.
Maria Arcangela, Eleonora, Letizia, Patrizia, Laura, Silvia, Celeste, Camelia, Giovanna, Marina, Flavia, Sara. Aurora.
Sono le donne e le ragazze uccise solo in ottobre, un mese nerissimo, un bollettino dell’orrore che non accenna a fermarsi e che dall’inizio dell’anno ha prodotto sin qui 96 vittime. Molte anziane, fatte fuori dopo lunghe convivenze, altre giovanissime, come Aurora.
E come le tre mariposas, Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal, tre sorelle dominicane uccise per il loro attivismo per la libertà e i diritti civili, nel cui nome è stata creata la giornata del 25 novembre contro la violenza sulle donne.
Basta una giornata a ricordare all’Italia che violenza e odio contro le donne sono una vera emergenza sociale? Ovviamente no.
Né basta tornare ai dati e alle evidenze che, come testimonia la ricerca, ci parlano di persistente presenza di stereotipi e di cultura intrisa di patriarcato quale matrice fondativa della violenza.
Secondo l’Onu, la violenza misogina online riguarda nel mondo il 38 per cento delle donne, colpite direttamente. Mentre ben l’85 per cento è coinvolta nel fenomeno in forma indiretta, vale a dire in quanto testimone di violenza. La nota dell’Onu è del 2022. In due anni, la situazione non è cambiata. Come certificano le numerose ricerche sull’odio online e come negli anni studi approfonditi hanno dimostrato (dalla Mappa dell’Intolleranza di VoxDiritti al Barometro dell’Odio di Amnesty), evidenziando come l’odio misogino costituisca circa la metà dell’intero bacino di intolleranza sui social.
Bastano, i dati e la conoscenza?
Ovviamente, non bastano. Hanno prodotto molto, in questi anni, ma non sono sufficienti, quando a dover mutare è un intero assetto socioculturale che sceglie parole e azioni che strutturano contesti di violenza di genere.
E dunque, è tempo di dirigere l’attenzione su chi odio e violenza la agisce. È necessario, se vogliamo davvero porre un argine al fenomeno più allarmante, l’abbassamento tragico dell’età di chi commette abusi sulle donne.
Esiste, e le molte ricerche sullo hate speech lo dimostrano, un tessuto favorevole alla formazione dell’odio e dell’intolleranza. È ciò che Raffaella Scarpa, nel bel libro Lo stile dell’abuso, chiama grammatica dell’abuso: lemmi, parole, frasi, costrutti lessicali che prendono le mosse da antichi pregiudizi mai sopiti e risvegliano il “branco”, aizzandolo contro le vittime prescelte.
“La violenza psicologica (chiamata anche manipolazione relazionale, abuso psicologico, abuso emotivo, maltrattamento mentale) si esercita attraverso azioni legate al condizionamento, alla manipolazione, finalizzate al porre l’altro in uno stato di subordinazione senza che intervenga l’aggressione fisica, l’assalto diretto”, scrive la Scarpa.
Parole cattive, parole che offendono, che mortificano l’altro, che lo incatenano a una condizione di (supposta) inferiorità sono parole abusanti, specchio di mentalità abusanti. E quelli che possono sembrare insulti detti a caldo, sull’onda e sulla scorta di rancori non elaborati, poi si trasformano in atti violenti e brutali. Così l’abuso si trasforma in violenza fisica. E, sui social, prende le forme di un fenomeno dilagante che, come le cronache purtroppo dimostrano, in determinate situazioni si commette in gruppo.
E dunque sì, partiamo dagli uomini. E dai padri. E da un ruolo che va ripensato e riformulato, anche dal punto di vista lessicale.
È lo psicoanalista Luigi Zoja, a centrare le coordinate dell’abuso collettivo, quando ricorda che è prerogativa della nostra specie la violenza sistematica di un gruppo contro un altro gruppo. Prerogativa, che affonda le sue radici nel mito del Centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo nato proprio da uno stupro. Ma perché il mito del Centauro vive ancor oggi nell’orrore dello stupro? Perché, risponde Zoja, “lungo l’evoluzione naturale l’identità femminile è relativamente stabile: così quando inizia ad apparire una società non più animale ma umana, nelle femmine biologia e cultura si fondono in un ruolo collaudato….L’identità maschile che conosciamo, invece, è ben più recente, legata alla società e alla storia. Come tale è molto meno definitiva e assai più fragile. Uno dei motivi che può aver portato al dominio maschile è il bisogno di negare questa precarietà e di riorganizzarla, dandole l’apparenza di una solida superiorità che esiste da sempre”.
E che prende le forme di un linguaggio che ben prima dell’odio usa sopraffazione e manipolazione.
Le parole creano e modellano il mondo che viviamo, gli individui che siamo e che saremo. Sono il nostro racconto. Dobbiamo imparare a usare le parole che includono e che curano. E dobbiamo imparare ad ascoltare. Un training, che è tempo che coinvolga prima di tutto gli uomini, magari meno avvezzi a usare la lingua che apre all’altro e al confronto, adusi come sono a secoli di utilizzo del linguaggio in forma di bisogno di segnare territori e frontiere.
In giapponese, per dire ascolto si usa l’ideogramma kiku. È l’unione di 3 ideogrammi: orecchio, occhio, cuore.
È ciò che serve oggi per creare un lessico che vada oltre gli stereotipi, la biada che foraggia l’abuso.