Poche luci e molte ombre nel sesto rapporto dell’ECRI. Che non le manda a dire al nostro Paese. A ragion veduta.
Si sapeva che sarebbe uscito. Ma non quello che avrebbe detto, in dettaglio. Né come lo avrebbe detto. E così, quando è stato pubblicato ieri, 22 ottobre, il sesto rapporto sull’Italia dell’ECRI ha fatto decisamente rumore. Perché il quadro che viene fuori non è certo edificante per il nostro Paese. E la lista di ciò che non va è piuttosto lunga: discriminazioni reiterate verso persone LGBTQIA+ (mancata protezione legale, assenza dell’educazione di genere nei programmi scolastici, stereotipi e pregiudizi da affrontare nella vita quotidiana), Rom e Sinti, persone migranti; massiccia e incontrastata presenza di hate speech nel discorso pubblico e politico; eccessiva dipendenza dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR) dall’Esecutivo e dalla Presidenza del Consiglio; sistemi di raccolta dati non coerenti; profilazione etnico-razziale da parte delle forze dell’ordine (che prende di mira “soprattutto i Rom e le persone afrodiscendenti”), perdurare di underreporting e underrecording, scarsità di azioni di prevenzione e informazione rivolte al pubblico generale, ecc.
Sono cose, queste, che la nostra Rete dice o denuncia da tempo. Si pensi alle nostre campagne di Rete o dei soggetti di Rete a sostegno dell ddl Zan e del riconoscimento giuridico del genere e delle discriminazioni basate sul genere, alla nostra attenzione al linguaggio quando si parla di persone migranti o gruppi razzializzati e marginalizzati (e alle nostre iniziative di advocacy a loro sostegno), alle ricerche pilota sulle profilazioni etniche in alcune zone del Paese, alla richiesta di un sistema centralizzato di raccolta dati su hate speech e hate crime, al suggerimento di percorsi e strumenti educativi intersezionali incentrati su diritti umani, uguaglianza, convivenza delle differenze, ai corsi di formazione e linee guida per il personale politico e per chi lavora nei media, all’istituzione di equality body e commissioni permanenti sui diritti umani pienamente indipendenti, alla necessità di potenziare il ruolo delle reti della società civile, ecc.
Ma fa un certo effetto vederle elencate una dopo l’altra – e con dovizia di dati e commenti, raccomandazioni – all’interno di un rapporto ufficiale di questa rilevanza. Il quale infatti, ha già fatto saltare sulla sedia più di un esponente di governo, a cominciare dalla Presidente del Consiglio. Senza contare le reazioni di quelli che gridano all’oltraggio o alla lesa maestà: come se fossero ignari di ciò che l’ECRI semplicemente riassume, e che la realtà ci racconta da diversi anni.
ECRI – è bene ricordarlo, soprattutto a chi vuole screditare il rapporto – sta per European Commission Againt Racism and Intolerance. Si tratta dell’organo indipendente di monitoraggio in materia di diritti umani istituito nel 1994 dal Consiglio d’Europa, specializzato in particolare in questioni relative alla lotta contro razzismo, discriminazione, xenofobia, antisemitismo e intolleranza. Composto da membri indipendenti designati per la loro riconosciuta competenza in materia – da qui l’eco e l’autorevolezza dei suoi rapporti – monitora periodicamente gli stati membri del Consiglio d’Europa concentrandosi, di volta in volta, su temi specifici. Come, è il caso di questo sesto rapporto, l’effettiva parità e accesso ai diritti, il discorso d’odio e la violenza per ragioni di odio, l’integrazione e l’inclusione.
Sono temi che, come Rete, non solo ci interessano da molto vicino, ma abbiamo anche trattato in varie sedi, attraverso strumenti e iniziative ricordate anche alla delegazione dell’ECRI in visita a Roma nell’ottobre del 2023. Non è un caso, infatti, che il rapporto citi tra le buone pratiche il lavoro di alcuni soggetti di Rete (Amnesty, Cospe, Lunaria, Vox Diritti), confermando il contributo fondamentale della società civile alle azioni di contrasto alle discriminazioni e ai discorsi e fenomeni d’odio. Ma sono anche temi su cui molto resta da fare, soprattutto in assenza di politiche e interventi da parte delle istituzioni. Anzi, afferma il rapporto in modo neppure troppo velato, a causa della determinazione delle istituzioni nel non volerli affrontare, e perfino nell’alimentarli.
Prendiamo la xenofobia, in particolare verso le persone migranti. Secondo l’ECRI sarebbe nutrita, appunto, dal discorso pubblico e politico, il quale avrebbe assunto toni “divisivi e antagonistici, in particolare nei confronti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, nonché di cittadini italiani con origine migratoria”, rimanendo incontrastato “anche da parte di politici di alto livello”. Questo atteggiamento xenofobo si riverberebbe anche in discriminazioni indirette, ad esempio nel trattamento riservato ai bambini migranti e con background migratorio, più esposti dei coetanei italiani al bullismo nelle scuole e all’abbandono scolastico. E per i quali invece dovrebbero essere adottate specifiche misure a sostegno loro e delle loro famiglie. Ma, per far questo, occorrerebbe una volontà politica che ancora non si vede. E che anzi va in tutt’altra direzione: dal ‘Decreto sicurezza’ alle deportazioni in Albania al disconoscimento dei diritti fondamentali e delle convenzioni internazionali.
Le responsabilità della politica sono richiamate, duramente, anche nel capitolo dedicato ai discorsi d’odio. Alcuni sforzi – nota l’ECRI – sono stati compiuti negli ultimi anni, soprattutto se rivolti alle giovani generazioni in termini di prevenzione, o nel contrasto all’antisemitismo, o nello sport tramite importanti campagne di sensibilizzazione. Ma prevalgono di gran lunga le preoccupazioni e i richiami sulla diffusione di contenuti d’odio nei periodi elettorali (come osservato peraltro da Amnesty nel suo Barometro del 2022, e ricordato dalla Rete con i suoi vademecum per candidate e candidati), sulla “banalizzazione” dei commenti d’odio nella vita pubblica e nell’informazione mainstream, sul successo (incontrastato, anzi coccolato) di dichiarazioni razziste e fobiche come quelle pubblicate nel libro del generale Vannacci. E si chiedono quindi interventi mirati e non più derogabili: da iniziative rivolte al pubblico per aumentare la consapevolezza della portata e degli effetti dei discorsi d’odio alla promozione del dialogo interculturale e interreligioso, da studi completi e indipendenti sulle pratiche di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine all’aggiornamento della normativa penale (che ancora non contempla tra i motivi di discriminazione il colore della pelle, la lingua, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o le caratteristiche sessuali, l’abilismo), da un metodo chiaro e granulare di raccolta dati relativi a discorsi e crimini d’odio, come peraltro già richiesto nel precedente rapporto ECRI del 2019, a un maggiore supporto alle vittime attraverso servizi specializzati dedicati, oggi forniti solo da organizzazioni della società civile con poco sostegno finanziario e riconoscimento da parte delle istituzioni pubbliche.
D’altronde – è tra le righe, nel rapporto – come fare a implementare tutto questo se non esiste neppure un efficace meccanismo di autoregolamentazione della vita politica (sotto forma di regole interne per i parlamentari, o come misure disciplinari all’interno di tutti i partiti politici)? Come fare a dare risposte concrete a chi subisce discriminazioni se esponenti di rilievo pubblico, compresi i funzionari dello Stato, non solo non sono incoraggiati ad assumere una posizione risoluta e pubblica contro le espressioni che incitino all’odio razzista, o all’odio omolesbobitransfobico – promuovendo attivamente dialogo e diritti umani, esprimendo solidarietà alle vittime – ma sono essi stessi fautori e propagatori di quegli stessi fenomeni?
Come può un Paese dar seguito – e ora la domanda è nostra – alle raccomandazioni contenute nel rapporto dell’ECRI, se un suo ministro può liberamente (e senza subire alcuna conseguenza) chiamare “cani e porci” le persone migranti, compiacersi della morte di una di loro in deroga a qualsiasi decenza istituzionale e umana, rispondere alle raccomandazioni di un organismo internazionale con un inqualificabile “i Rom se li porti a Strasburgo”?
Le risposte – crediamo – sono, ancora una volta, nella ferma opposizione a politiche discriminatorie e culture dell’odio, attraverso una piena presa di coscienza di problemi e responsabilità, per la difesa dei diritti umani. Facendo Rete, con tutti i soggetti che – su questo – vogliono spendersi e mettersi in gioco.
Il Coordinamento della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio