I megafoni digitali dell’hate speech di genere. Responsabilità e compiti del giornalismo

da | Ago 19, 2024 | Ricerche e tesi di laurea

Hate speech

della Dott.ssa Cristina Accardi

 

La costruzione del nemico ha dei fondamenti storico-culturali che riversano nella società il clima di odio, che per quanto concerne le questioni di genere si traduce spesso in fenomeni come la misoginia e il sessismo

Partendo dal presupposto che i media sono dei mezzi ancora incisivi nella costruzione dell’opinione pubblica, per il mio elaborato di tesi magistrale ho deciso di indagare la responsabilità del giornalismo nell’incrementare l’odio. In particolare, analizzando le hate speech sul genere femminile nello spazio di amplificazione dei SNS (Social Network Sites), ormai diventati i megafoni dei pensieri individuali e collettivi della nuova sfera pubblica mediale. 

Infatti, per poter dimostrare che le medesime rappresentazioni stereotipate del genere femminile sono presenti anche negli spazi digitali, sono stati presi in analisi gli articoli e i commenti di utenti pubblicati su Facebook, nel periodo di monitoraggio tra maggio-ottobre 2022.

Dall’analisi del contenuto dei 60 articoli free access, delle 9 principali testate nazionali prese in esame (Il Corriere della Sera; La Repubblica, La Stampa, Il Giornale, La Verità, Il Fatto Quotidiano, Il Messaggero e l’ANSA), è emerso che il 63,3% degli articoli informa, approfondisce la tematica trattata (30%), lascia poco spazio a interpretazione (5%) o a rendere emotivamente partecipi il lettore (20%). Inoltre, contrariamente all’ipotesi di partenza il 41,7% dei testi presi in analisi ha una narrazione obiettiva e soltanto in alcuni casi è polemica (14,2%) o ironica (12,5%). 

L’alta percentuale di obiettività e l’utilizzo dello stile prettamente informativo nei testi fa dedurre che tali caratteristiche non possono essere considerate garanti per il contrasto dell’odio. Infatti, è emerso che il linguaggio oggettivo è correlato con narrazioni stereotipate o a fenomeni come il victim blaming, coi quali si colpevolizza la vittima e mentre si deresponsabilizza il carnefice. Questo fenomeno è più manifesto nei casi di cronaca riguardante stupri, molestie, violenze, femminicidi o donne appartenenti a una minoranza etnica o religione, poiché l’hater tende a giustificare l’atto violento generalizzando sul genere femminile e portando l’attenzione della narrazione sulla perdita di valori morali ed etici oppure sulle motivazioni antidemocratiche e culturalmente misogine in relazione agli stati islamici.

Nella maggior parte degli articoli le donne vengono rappresentate come vittime, poiché sottoposte ripetutamente ad abusi, stupri e molestie, fino ad arrivare ad essere uccise. Dunque, la donna appare come impossibilitata a cambiare la sua condizione. Spesso questo tipo di narrazione è strettamente legata anche al suo status stereotipato come sesso debole e subalterno al genere maschile. In questi specifici casi le contro-narrazioni degli haters tendono a generalizzare e colpevolizzare la vittima o addirittura a sminuire il fenomeno. 

Nonostante l’Italia sia considerato uno dei Paesi più avanzati in tema di diritti, ancor’oggi le donne sono costrette a rivendicare i diritti personali e la loro emancipazione, poiché la struttura patriarcale e gerarchica del nostro sistema sociale rende più difficile contrastare le disuguaglianze e correggere il gender gap socio-economico e politico. Il dominio maschile e la relativa egemonia culturale sono ben radicati all’interno della società. Per questa ragione, nonostante le storie con epiloghi drammatici, che dimostrerebbero l’esistenza di ciò, le violenze e le lotte femministe vengono sminuite. 

Sui social il dibattito d’odio veicola principalmente concetti pregiudizievoli e stereotipati nei confronti del genere femminile, avvalendosi frequentemente della diffusione di notizie completamente infondate, del tutto false o manipolate con interpretazioni soggettive. Difatti, la generalizzazione, applicata ai casi di violenza, comporta consecutivamente la giustificazione della violenza stessa: colpevolizzando la vittima e deresponsabilizzando l’aggressore

Proprio su questo si fonda la cultura dello stupro (rape culture) che secondo l’analisi dei commenti risulta essere presente anche nella nostra società. Tale termine non si riferisce soltanto all’atto specifico dello stupro, ma ad oggi è un’espressione che racchiude un insieme di comportamenti come la minimizzazione di un problema e l’inevitabile ridimensionamento del fenomeno. 

Quindi, l’odio non è più indirizzato a denigrare tramite lo slut-shaming (il cosiddetto stigma da puttana/sgualdrina), ma è teso a colpire e mettere in discussione le capacità intellettive e le abilità del genere femminile. L’associazione donna-corpo sparisce quasi del tutto sia all’interno degli articoli di giornale che negli hate speech. Ciò però non significa che l’oggettificazione e la sessualizzazione del corpo femminile si possa considerare superata, ma porta a desumere che la crescita dell’empowerment femminile abbia cambiato anche le contro-narrazioni dell’odio. 

Infatti, i personaggi pubblici femminili e le donne in posizioni di potere vengono denigrate mediante la negazione delle loro capacità e abilità, per ridimensionarne il successo e incrinarne l’autorevolezza. 

Per quanto concerne la responsabilità giornalistica, le testate che più utilizzano una narrazione oggettiva e informativa sono le medesime (escluso il Corriere della Sera) in cui vi è una maggiore frequenza dell’incitamento all’odio. Quindi, mantenere un linguaggio oggettivo non garantisce un minore flusso d’odio online, poiché restituisce comunque un’immagine negativamente stereotipata del genere femminile. Infatti, la principale causa di hate speech di genere è dettata dalle rappresentazioni femminili che le narrazioni mediali restituiscono. 

Dunque, nei discorsi d’odio un ruolo ancora principale viene giocato da stereotipi connessi al sesso, in cui il genere maschile domina ed è rappresentato attraverso narrazioni machiste che incitano alla misoginia. Questa da una parte si traduce nella frustrazione della perdita dei luoghi e dei ruoli simbolo di potere, dall’altra nel senso di rivalsa e riconquista del proprio status quo.

 

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