Federico
Da Treccani: “Linguista italiano (n. Cuneo 1972). Conseguito un dottorato di ricerca a Royal Holloway, università di Londra, ha insegnato nelle università di Birmingham, Granada, Londra e Torino. Attualmente è professore di Storia della lingua italiana e di Sociolinguistica all’università di Reading. […] Le sue ricerche si sono rivolte soprattutto allo studio degli stereotipi etnici e della costruzione linguistica della diversità.”
Altro tipo di virus
“Un linguaggio sempre più diffuso, soprattutto a mezzo social. Un linguaggio virale e viralizzato. E non è un caso che da qualche tempo si ricorra alla metafora “virus dell’odio”, usata perfino dal presidente della Repubblica il 27 gennaio di due anni fa, quando – a seguito di alcuni episodi di antisemitismo – nella Giornata della Memoria richiamò il Paese al dovere di «debellare il virus dell’odio e della discriminazione».”
Parole per ferire
“Altrettanto deumanizzante era zoccola, con la sua doppia connotazione negativa (ratto + prostituta), al pari di vacca. Così come, a proposito di sessismo, cozza, cessa, vecchia, rifatta: termini utilizzati non solo per insultare, ma anche in quanto attacchi alla persona fisica, per denigrare una donna a livello personale invece che contrastarla sul piano delle idee.”
Rivelazione della cura
“Imporre la relazione, o negare la lingua all’altro, può infatti produrre dolore, accelerare la malattia senza peraltro interrogarsi sull’essenza della cura.”
“E se invece, attraverso la metafora del linguaggio-malattia, Barthes non avesse voluto suggerire che la cura, l’unica cura, risieda proprio nella consapevolezza del linguaggio e nel nostro dovere di esercitarla? Può il linguaggio essere allo stesso tempo cura della sua malattia?”
Modelli d’ispirazione
“Farsi ispirare da chi, attivo nei social, dà esempio di una comunicazione corretta, da chi è attento a scegliere le parole da usare, avvertendo la responsabilità (per sé e per gli altri) dei concetti ai quali il suo gesto comunicativo dà corpo – il che non significa necessariamente soffocare la spontaneità, o anche il divertimento connesso a un’interazione ironica”, il consiglio di Gabriele di Luca nella postfazione del libro.
Farsi comunità
“Se il linguaggio è malattia, come può essere anche cura? È possibile – mi viene da rispondere – se le parole della cura partono dalla cura collettiva delle parole. Se ci facciamo comunità di terapeuti che si pone all’ascolto, che si fa e accoglie voce, che re-impara a co-abitare – dopo la cesura pandemica – spazi di relazione sociale e linguistica, regole condivise, codici e linguaggi”, scrive Federico.