a cura di Silvia Garambois, Presidente GiUliA giornaliste e Paola Rizzi, membro del Direttivo nazionale di GiULiA giornaliste, delegata sui progetti contro il linguaggio d’odio
Lo scatenarsi del linguaggio d’odio come freno all’informazione: vera e propria censura per il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti.
Per le donne con un’aggravante, vittime di attacchi sessisti, spesso di grande volgarità e insieme di grande violenza (con un richiamo ripetuto ad atti sessuali e allo stupro), che in più casi sembrano orchestrati per attaccare le professioniste nel loro lavoro, soprattutto se impegnate in settori particolarmente esposti, tanto sulle inchieste su migranti o Islam, quanto su malavita organizzata o mafie. Come se l’essere donne a scrivere su temi socialmente sensibili fosse inaccettabile per gli odiatori da tastiera.
Queste aggressioni social portano, in situazioni limite, a conseguenze egualmente dannose per le professioniste: indotte a interrompere le inchieste e i reportage che stanno realizzando e a cambiare settore di lavoro (non tanto per loro volontà ma per l’intervento delle aziende editrici che temono conseguenze per queste sovraesposizioni), o costrette dal ripetersi di minacce e dall’accumulo di stress ad abbandonare Facebook o Twitter, chiudendo le porte alla condivisione del proprio lavoro.
Nasce da questa preoccupazione l’impegno di GiULiA-giornaliste con Vox-Osservatorio italiano sui diritti, perché solo la conoscenza dei fenomeni e l’approfondimento di ricerca, anche con l’appoggio di Università e di professionisti dell’analisi dei casi, può consentire di creare anche nell’informazione gli anticorpi necessari per affrontare e contrastare il linguaggio d’odio.
Solo pochi mesi fa, lo scorso settembre, nella sede della Federazione della Stampa è stato materialmente consegnato al viceministro degli Interni Matteo Mauri un dossier – una vera mole di documenti – sulle minacce social ricevute da giornaliste e giornalisti solo nell’ultimo anno.
Ma quali sono le contromisure che giornaliste e giornalisti possono mettere in campo? Da un primo esame del ricco materiale elaborato per questa ricerca, sembra emergere un dato: quando i commenti vengono lasciati aperti, senza replica, sembra di assistere ad un gioco al rialzo, con attacchi sempre più feroci, sganciati dai fatti, dove il body shaming contro le giornaliste e l’aggressione sessista in generale diventano fini a sé stessi.
Quando invece intervengono risposte, si crea contradditorio, vengono eliminati – come hanno testimoniato alcune colleghe – commenti sull’aspetto fisico e volgari aggressioni sessiste, la spirale dell’odio si ritrae.
È urgente anche una riflessione approfondita, non semplice, su diritti e doveri dei giornalisti e delle giornaliste nella gestione delle loro pagine social, che ormai sono uno degli strumenti indispensabili della professione per mantenere un’interlocuzione necessaria con la propria audience.
Pagine pubbliche di professionisti noti con migliaia di follower non possono essere una prateria selvaggia dove gli hater hanno campo libero, moltiplicando all’infinito messaggi d’odio e, nei casi testimoniati in questa ricerca, misogini. È necessaria un’alleanza di tutti nel contrasto al discorso d’odio.
Il tema della moderazione è quindi una questione cruciale e apertissima. E probabilmente non basta il conforto di un algoritmo.
Se chi attacca un giornalista attacca la libertà di tutti ad essere informati, forse è giunto il momento di fare appello a chi ha a cuore la libera informazione per trovare una rete di alleati nei social, che contrastino l’odio con il ragionamento.