L’episodio è noto.
Durante la trasmissione Bene bene Male male andata in onda venerdì 19 febbraio sull’emittente fiorentina Controradio, Giovanni Gozzini – professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena – ha ripetutamente e pesantemente insultato Giorgia Meloni, dialogando con il giornalista Raffaele Palumbo e lo scrittore Giorgio Van Straten: “Questa pesciaiola. Mi dispiace offendere questi negozianti, ma non posso vedere in Parlamento gente simile, cioè di una ignoranza di tale livello che non ha mai letto con ogni evidenza un libro in vita sua. E che poi possa questa gente rivolgersi da pari a pari a un nome, Mario Draghi”. Palumbo risponde: “Onore agli ortolani e ai pesciaioli, scusatemi, che non c’entrano niente”. Van Straten esprime il suo consenso: “Sono d’accordo anch’io”. Lo scambio non termina qui, Gozzini e Van Straten proseguono con le offese rivolte all’esponente politica.
Il professore dichiara “Ma guarda, io li conosco i pesciaioli”, seguito dallo scrittore “E allora non dire pesciaiola”. E continuano ad alternarsi in questo dialogo: “Datemi dei termini. Una rana dalla bocca larga, una vacca, una scrofa: cosa devo dire per stigmatizzare certi livelli di ignoranza e di presunzione?”. “Peracottara, ti va bene?”. “Peracottara, forse”.
Le reazioni non si sono fatte attendere. “Siamo increduli – ha detto il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli – che nel 2021 ci si possa esprimere ancora così pubblicamente. Ancora di più che a farlo sia un professore”. Sono poi seguite la solidarietà a Giorgia Meloni del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, le scuse di Gozzini (“Presento le mie scuse per il linguaggio usato durante la trasmissione. Non è mio costume, né come ospite storico della trasmissione di Controradio né in altra sede promuovere un linguaggio che non sia più che rispettoso nei confronti di tutti”), la condanna degli attacchi “volgari e sessisti” da parte del del rettore dell’Università di Siena Francesco Frati e, ieri, la sospensione cautelativa dalle attività didattiche del professore.
Nel dibattito sono intervenute anche le giornaliste di Controradio, prendendo le distanze dal linguaggio discriminatorio e sessista di Gozzini e ritenendo lesa la loro professionalità e il loro impegno quotidiano “per una corretta e rispettosa narrazione di genere”. “Ci siamo sentite colpite nella nostra dignità umana e professionale – hanno scritto nel loro comunicato le giornaliste – ognuna di noi cerca di praticare nell’informazione quotidiana, dalla cronaca all’approfondimento, dalle interviste alle trasmissioni speciali, fino alla formazione della categoria e del pubblico, un corretto uso del linguaggio come strumento primario per cambiare stereotipi e percezioni distorte, offensive e violente nei confronti delle donne, in ogni ambito e in ogni sede”.
Moltissimi sono stati inoltre i commenti, sia a mezzo stampa sia nei social media, da parte non solo di giornalisti e giornaliste, opinionisti e opinioniste, ma anche di lettori e lettrici, utenti, persone che hanno voluto esprimere il loro disappunto e il loro rammarico. Ancora una volta l’opinione pubblica si è divisa: tra chi chiede sanzioni severe per Gozzini, condannandone senza appello la figura, e chi sostiene che l’episodio – non il professore – andrebbe biasimato.
Senza volerci addentrare nel dibattito, né mettere alla gogna nessuna delle persone coinvolte – stigmatizziamo le gogne mediatiche tanto quanto i discorsi d’odio – vorremmo brevemente fare alcune considerazioni.
La Rete non si esprime su ogni singolo fatto di cronaca: non è questo il nostro scopo, né abbiamo la rapidità per commentare, a caldo, ogni singolo episodio di hate speech o linguaggio nocivo. Cerchiamo, per quanto possibile, di mettere in evidenza attacchi strutturati e reiterati, condannandoli. E di produrre riflessioni e strumenti che permettano una lettura critica e approfondita dei fenomeni. Ci siamo espressi – più volte – contro i discorsi d’odio a prescindere da chi ne fosse oggetto: ci interessa studiare e contrastare le dinamiche e le strategie pragmatiche sottese all’hate speech (che nella sua accezione più ampia ha come fine ultimo la denigrazione e la delegittimazione dell’altro), non puntare il dito contro questo o quell’hater né ragionare per categorie o partito preso.
Anche questo episodio, come molti altri (che hanno riguardato la stessa deputata Meloni come molte altre donne con un profilo pubblico), ci fanno pensare che epiteti e ingiurie sessiste, e più in generale espressioni d’odio, non sono appannaggio esclusivo di alcuni gruppi o persone. Esiste un problema, e si chiama misoginia, machismo, cultura patriarcale. Ed è un problema che va affrontato con forza, in ogni contesto.
Un altro problema, forse meno evidente ma altrettanto reale, è quello del cosiddetto “odio dei giusti” (e “delle giuste”): le espressioni di disprezzo e d’odio – misogino, razzista, classista – di chi si sente nel giusto, appunto, attaccando i misogini, i razzisti, i classisti con i loro stessi metodi. Si tratta di insulti, slogan, tentativi di umiliare l’altro, non di dialettica o di scontro politico e sul piano delle idee. Il body shaming sessista non è questione di destra o sinistra: è offensivo, arrogante, violento. Punto. Così come lo sono il classismo e il razzismo: non vi è una formulazione migliore dell’altra. Se scade in discorsi misogini e hate speech l’eloquio di un professore democratico antifascista non è “più giusto” di quello delle persone che lui vorrebbe (politicamente) combattere, a maggior ragione se prende di mira il corpo (“rana dalla bocca larga, vacca, scrofa”) e non le idee, come farebbe un qualsiasi bulletto senza argomenti.
Ciò che in effetti disturba, e molto, di quella trasmissione radiofonica, non sono soltanto le parole di Gozzini, ma il clima generale da bulletti che se la ridono e se la cantano da soli, come fossero al bar: tre uomini che – in radio a microfoni aperti, non nei loro tinelli – pensano di essere intelligentemente spiritosi insultando, spalleggiandosi l’un l’altro, senza esitazioni, come fosse normale scambiarsi certe battute davanti ad ascoltatori e ascoltatrici. Disturba che proprio loro, che del linguaggio e dei contesti d’uso dovrebbero avere contezza e consapevolezza, avendone fatto un mestiere (tra cui quello di insegnante) e una ragione intellettuale, non si rendano conto di fare lo stesso gioco di coloro che vorrebbero criticare, di mescolare alto e basso, arguzia e trivialità, perdendo completamente il senso del “peso” che la parola pubblica dovrebbe avere.
Nessuno rimpiange il politichese, l’estrema formalità (e l’estremo formalismo) di certi registri, una comunicazione elitista e ipercontrollata anche quando il mezzo – e il contesto – richiedono semplicità, chiarezza, immediatezza. Ma se il linguaggio diventa soprattutto flatus vocis, ammiccamento cameratesco, “parlacomemangi” nell’idea che – forti di un’arroganza questa sì classista e mal dissimulata – tutto si possa dire, sempre e comunque, anche in uno spazio pubblico, esentati da responsabilità e sensibilità nei confronti di chi ascolta (e delle persone di cui si sta parlando), non bisogna sorprendersi troppo se si superano i limiti della decenza e si scivola, malgré soi, nel vituperio e nel bullismo. L’hate speech, d’altronde, anche questo fa: mortifica la nostra competenza linguistica e comunicativa riducendola a una ridda di slogan, di battutacce triviali (da non confondere con l’ironia, ben altra cosa), di insulti, sparati spesso – tra l’altro – nel mucchio, al riparo di uno schermo o di un microfono e di una presunta patente di impunibilità.
Un’ultima annotazione, anzi un invito. Anche per dare una risposta ferma a discorsi ed episodi misogini è stato scritto il disegno di legge ‘Zan’: discusso e approvato alla Camera – malgrado i voti contrari di Fratelli d’Italia – proprio per tentare di tutelare le donne, le persone LGBTI, le persone con disabilità di fronte a certi attacchi, a certi abusi, a certi linguaggi. Come è noto il ddl è fermo in Senato, in attesa di approvazione definitiva, e nella speranza che possa presto diventare legge dello Stato. I fiumi di parole spesi in questi giorni sulla trasmissione di Controradio sarebbero (stati) ben spesi se, tra i loro effetti, potessimo annotare anche un cambio di fronte da parte di Giorgia Meloni e del suo partito: un impegno a non ostacolare l’iter del ddl e a combattere misoginia, omo-lesbo-bi-transfobia e abilismo come dovrebbe essere normale nel nostro Paese, nel ventunesimo secolo.
Se proprio non lo vuole fare per sé, onorevole Meloni, lo faccia per tutte le persone che, al contrario di lei, non hanno la possibilità di difendersi pubblicamente e con grande eco mediatica, dalle offese ricevute. Sarebbe senza dubbi la risposta migliore, e più utile, a quanto accaduto.
Federico Faloppa – Coordinatore della Rete